In questa seconda opera Daniela Péaquin continua il racconto del viaggio interiore di una
madre che ha perso il suo unico figlio in giovane età.
Un lutto di queste proporzioni e profondità può portare alla disperazione e all’annientamento.
Ci si può lasciare andare, arrabbiarsi, crogiolarsi, oppure rialzarsi e provare a conquistare
qualche attimo di felicità.
Non importa con quale motivazione si cerchi il coraggio di continuare, ciò che importa è dare
un significato e una prospettiva al dolore che l’autrice declina come forza, e rintraccia dentro
di sé le energie per recuperare se stessa e la sua esistenza.
Il dolore è fortemente soggettivo, ci sono però, almeno inizialmente, due grandi modalità per
affrontarlo e che dipendono dalla capacità di capire di ognuno: vi è il dolore intelligente nel
senso che la persona ha una relazione culturale con esso e ne afferra ogni sfumatura riverberata
dalle sue conoscenze, e vi è un dolore non meno significativo e incomprensibile,
quello di coloro che non avendo i mezzi per conoscerlo e descriverlo nella sua ampiezza,
riescono “solo” a sentirlo ma non a comunicarlo, infatti quando ci si trova di fronte a questo
stato di malessere viscerale a volte si sente dire: “Sono senza parole”.
Il volume segue la prima strada, l’autrice ha le parole, la cultura, l’intelligenza e il coraggio
per cogliere e descrivere tutte le tonalità di quanto le è accaduto, e vuole trasmettere al lettore
la sua personale interpretazione, narrando il mondo del dopo.
Non si tratta dell’“elaborazione del lutto” ma di uno stadio successivo nel quale credere fermamente
che coloro che ci hanno lasciato non sono mai lontano da noi, e possiamo scorgere
tracce della loro presenza in ogni momento della nostra giornata.